venerdì 30 novembre 2012

I repair caffè



Bevi caffè e ripara: dall’Olanda arriva l’idea anticrisi

Basta con l’usa e getta. Anche la crisi economica ci impone di trovare soluzioni alternative al consumismo sfrenato. Si sa, riciclare rifiuti fa bene all'ambiente ed è anche l’unico metodo per risolvere problemi legati a discariche sature e insufficienti.
Uno dei pochi dati positivi della crisi è l’aumento della solidarietà tra i cittadini contro la cultura del consumismo diffuso. E così in Olanda sono nati i primi “repair cafè”, locali cioè dove riparare oggetti in modo totalmente gratuito, davanti una tazza di caffè o di tè. Chiunque può portare un oggetto rotto o non funzionante e trova un esperto che mette a disposizione la sua professionalità per risolvere il problema. Uno sgabello che traballa, il lettore cd dello stereo che non funziona più, o un vecchio orologio che sballa l’orario. Basta portarli ad un “repair cafè”. In Olanda sono più di quaranta i centri di pronto soccorso che offrono consulenza. Si tratta di coffee shop, associazioni culturali o sedi di fondazioni aperti a tutti, dove gratuitamente o dietro donazioni volontarie personale qualificato e appassionati del do it yourself (fallo da solo) aiutano a riparare oggetti rotti di vario tipo, davanti a un dolce o a una tazza di tè.
Il progetto, partito tre anni fa, favorisce lo scambio dei saperi. È una buona occasione per scambiare due chiacchiere con le persone del proprio quartiere, o del proprio condominio che si ritrovano in questi luoghi d’incontro. Infatti, chi porta un oggetto da riparare, diversamente da come succede quando si va in un negozio, non lascia lì l’oggetto e va via. Anzi, assiste, impara, scambia due chiacchiere, aiuta con le proprie mani e va via soddisfatto per aver trascorso il tempo coltivando la propria cultura del “faida-te”.
L'intenzione non è quella di sostituirsi ai professionisti del settore o di entrare in concorrenza con i centri di riparazione ma, al contrario, di sostenerli diffondendo il più possibile la cultura del recupero.
In Italia l'esempio che più si avvicina è la ciclofficina, dove gratuitamente si può portare la bici da aggiustare, o magari portare pezzi di ricambio di biciclette in buono stato che potrebbero essere utili per altre biciclette.

                                                                       Lorenzo Russo

mercoledì 28 novembre 2012

Riciclare i rifiuti per rilanciare l’economia



Un’altra via è possibile: in Europa il ricorso alle discariche e agli inceneritori è stato abbandonato da tempo. La gestione del riciclo si potrà attuare con nuove norme legislative


Dopo Napoli tocca a Roma. Non è affatto un circuito virtuoso perché la strada per smaltire i rifiuti porta dritta all’estero. È una delle conseguenze dell’investire in discariche e inceneritori, invece di cercare possibili vie alternative. Roma ricicla solo il 24 per cento dell’immondizia e da gennaio sarà costretta a esportare rifiuti. Delle quattro mila tonnellate giornaliere di rifiuti prodotti, mille e duecento tonnellate saranno spedite fuori dall’Italia: destinazione da stabilire. Impossibile, per ora, conoscere i costi dell’operazione, in ogni caso, si tratta di parecchi milioni di euro spesi in più piuttosto che smaltirli in casa propria. A Napoli, che manda i rifiuti in tre regioni italiane, costa 150 euro a tonnellata. Per non parlare delle ecomafie e delle 26 milioni di tonnellate di rifiuti che ogni anno sono esportate clandestinamente da tutta Italia verso i mercati orientali.
Eppure il riciclo anche a chilometro zero, dati alla mano, sarebbe la via maestra per smaltire i rifiuti e rilanciare l’economia. A questa conclusione giunge la ricerca presentata al convegno “Plastica e riciclo di materiali: un’altra via è possibile”, promosso da Eurispes e Federazione Green Economy, in collaborazione con il Consorzio PolieCo. Secondo la Commissione europea se i 27 paesi dell’Unione si adeguassero alle normative comunitarie su riutilizzo e riciclaggio si potrebbero risparmiare 72 miliardi di euro l’anno e creare 400 mila posti di lavoro entro il 2020. «I rifiuti sono una risorsa e non vanno visti come un fardello di cui liberarsi ‒ spiega il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara ‒. L’Italia, non attuando una corretta gestione del ciclo, esporta ricchezza. Invia in Cina masse di materiale da riciclo con costi enormi e poi riacquista dalla stessa Cina oggetti prodotti con quello stesso materiale senza alcuna garanzia di qualità. Il riciclo in casa nostra è la via maestra – prosegue Fara – per rilanciare l’economia, prevenire lo spreco di materiali, ridurre il consumo di materie prime e di energia». Al danno finanziario apportato all’intero sistema di raccolta e gestione dei rifiuti in plastica  ‒ spiega la ricerca Eurispes ‒ si aggiungono il danno economico, determinato dalla necessità per i produttori europei di attingere a materie prime vergini, anziché a materie prime seconde, e quello ambientale, originato dal depauperamento delle risorse naturali disponibili. Quello che sembra costituire un certo guadagno momentaneo per il produttore e raccoglitore, conseguito dalla vendita di rifiuti selezionati e, in alcuni casi, riciclati a commercianti e intermediati verso il mercato estero, determina a lungo andare un’implosione dell’industria europea del riciclo.
L’Italia, in Europa, è tra le ultime in classica sulla gestione dei rifiuti, 20esima su 27 Paesi e il problema di fondo è quello di considerare il rifiuto come una risorsa. Occorre, infatti, un cambiamento di mentalità e una rivoluzione culturale a favore dell’ambiente perché il riciclo è il migliore strumento di separazione e recupero dei materiali.
Sono numerosi gli esempi virtuosi e le buone pratiche. In Gran Bretagna sono riusciti a creare delle sinergie industriali riuscendo a far comprendere alle imprese che i loro rifiuti e i loro sottoprodotti possono servire da risorse e materie prime per altre aziende con il vantaggio che la prima risparmierà sullo smaltimento, la seconda sull’approvvigionamento. E anche senza quantificare le ricadute positive sull’ambiente, sul minor impiego di risorse e sui posti di lavoro i vantaggi sono notevoli. Il progetto, ideato da International Synergies, ha, in cinque anni, totalizzato cifre straordinarie: 35 milioni di tonnellate di rifiuti non conferite in discarica; 48 milioni di tonnellate di acqua, 30 milioni tonnellate di CO2 e 49 milioni di tonnellate di materie prime vergini risparmiate; 1,8 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi eliminate. Le aziende partecipanti (a oggi 14.000) hanno risparmiato oltre 1.100 miliardi di euro e registrato aumenti delle vendite pari a 1.200 miliardi di euro. Sono stati inoltre creati 22.000 posti di lavoro.
I rifiuti rientrano così nel ciclo produttivo per realizzare nuovi prodotti. È un’economia circolare che senza l’aiuto di norme legislative apposite per passare dalla gestione dei rifiuti alla gestione del riciclo risulta operazione molto complessa.

lunedì 26 novembre 2012

Un bagnetto di benessere



Qualche idea per risparmiare, utilizzando prodotti naturali per grandi e piccini

Avete mai visto le pubblicità con quei bambini sorridenti ricoperti di schiuma, che fanno il bagnetto in un mare di bolle di sapone colorate? Meglio non imitarli! Innanzi tutto, per evitare al nostro piccolino di ingozzarsi di sapone, ma soprattutto perché le sostanze chimiche che servono a produrre tanta schiuma non sono adatte alla pelle delicatissima dei bambini: anzi, essendo molto aggressive, possono provocare arrossamenti, pruriti ed allergie.
Ma allora, come lavare in tutta sicurezza bimbi e neonati, con prodotti naturali e possibilmente economici? Seguendo i consigli della pediatra, questo problema in casa nostra lo abbiamo risolto da tempo. Per un bagnetto sano e rilassante, basta versare nell’acqua calda (non bollente, non stiamo cuocendo un polletto!) un cucchiaio di amido di riso. Quale scegliere? In commercio esistono diversi prodotti, la maggior parte dei quali abbastanza costosi. In realtà, con medo di due euro si trovano scatole di amido di riso da 500 grammi su cui è chiaramente scritto che si può utilizzare per il bagnetto di grandi e piccini. E se la pelle del bambino è arrossata o ha i puntini tipici della sudamina? Niente paura, con un cucchiaio del bicarbonato di sodio che si usa per cucinare sciolto nell’acqua il gioco è fatto. E la spesa? Meno di un euro e lo si può utilizzare per decine di lavaggi.
Ovviamente, bisognerà pure scegliere un sapone, un olio da bagno o uno shampoo: ma come districarsi tra decine di flaconi di marche diverse? L’importante è preferire prodotti per pelli sensibili e delicate, possibilmente con proprietà lenitive e riequilibranti, che non contengano il “sodium laureth sulfate”, che può provocare arrossamenti e irritazioni. Ancor meglio, poi, se non ci sono glutine e conservanti.
Passando agli adulti, perché non dovrebbero preferire i prodotti naturali anche le mamme e i papà? Innanzi tutto per le mani. Gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità raccomandano infatti di lavarle con acqua tiepida e sapone neutro, strofinando palmo e dorso per almeno trenta secondi e risciacquando con cura. L’importante è asciugarle con salviette pulite: a questo punto non c’è nessun bisogno di ricorrere ai disinfettanti per tener lontani virus e batteri.
Il discorso, naturalmente, può essere esteso anche agli shampoo e ai bagnoschiuma: sempre meglio preferire prodotti naturali (oggi se ne trovano anche di biodegradabili al cento per cento) per evitare pruriti e inestetismi dovuti a irritazioni ed arrossamenti. Uguale attenzione può essere fatta anche per i deodoranti: meglio evitare gli antitraspiranti e preferire prodotti senza alcol e senza sali di alluminio. Bastano piccole accortezze, a volte, per vivere meglio, volersi più bene e nuocere meno all’ambiente.
                  
                                                                                                  Sara Fornaro

mercoledì 21 novembre 2012

Riparo, riuso, recupero


Nell’Italia della crisi si va diffondendo la consuetudine di rimettere in circolo gli oggetti, aggiustarli e scambiarsi beni

Diminuiscono i consumi, aumentano le riparazioni, cresce il riutilizzo degli oggetti. Questa, che rientra nella nota filosofia delle “quattro erre” (ridurre, riutilizzare, riciclare e recuperare), potrebbe essere la fotografia delle abitudini degli italiani in tempi di crisi. Se prima un elettrodomestico guasto veniva facilmente sostituito e un capo di abbigliamento con uno strappo era subito rimpiazzato da un nuovo acquisto, oggi le cose sembrano essere cambiate.
Chiedetelo a Giuliano Andreucci, responsabile di Zyp, una catena di negozi che ripara abiti, moltiplicatisi in un batter d’occhio e sempre in grande attività. Complice la mancanza di tempo e anche l’incapacità sempre crescente di fare quei piccoli lavori di sartoria che per le nostre mamme erano all’ordine del giorno, i negozi rosa (dal colore degli infissi che li caratterizza), hanno intercettato sicuramente un bisogno diffuso.
Il ragazzo della bottega sotto casa mi racconta che le richieste riguardano soprattutto il cambio di una cerniera rotta, oppure la riparazione di qualche strappo, ma anche la trasformazione, con qualche piccolo accorgimento, di un capo d’occasione da usare in cerimonie diverse, nonché il rattoppo creativo di un cappotto da usare il più possibile.
La vera novità sembra però venire dal settore degli elettrodomestici, dove il verbo riparare negli ultimi anni ha trovato una sempre più grande accoglienza. Secondo dati dell’Associazione riparatori elettrodomestici di Torino, viene aggiustato infatti il 40 per cento delle lavatrici, il 35 per cento dei ferri da stiro con caldaia, il 30 per cento delle lavastoviglie, il 15 per cento dei frigoriferi, il 10 per cento dei forni a microonde. Non solo quindi gli elettrodomestici di taglia grande e dal costo consistente, ma anche quelli più piccoli e dalla spesa più abbordabile.

In quanto al riutilizzo, certamente abbiamo ancora sotto gli occhi nel mese di settembre le lunghe file ai mercatini del libro usato: sempre di più gli studenti vi fanno ricorso per guadagnarci qualcosa, vendendo quelli non più in uso e per risparmiare sull’acquisto di quelli da utilizzare nell’anno. Ma si diffonde pure l’abitudine a mettere in rete annunci di offerte o richieste di beni non più necessari, o che lo sono solo per un periodo.
Fra le tante iniziative che vanno in questa direzione segnaliamo il “cassonetto Rca - rifiuto con affetto”. Si tratta di un progetto nato dall’iniziativa di Maddalena Vantaggi, designer dell’Università di Venezia, che, con due colleghe, ha creato un cassonetto-vetrina, dove depositare gli oggetti che si vorrebbe dar via perché non ci servono più, ma ai quali siamo affezionati. La filosofia di fondo è che ciò che appare inutile per una persona può diventarlo per un’altra; inoltre, la vetrina spesso diventa luogo di scambio tra oggetti e occasione di incontro tra persone.
Tra gli effetti non di poco conto va sottolineato il fatto di rimettere in circolazione beni ancora in buono stato e allungare il ciclo di vita di un oggetto. A tal proposito torna in mente quanto sostiene Guido Viale, economista, autore del libro La civiltà del riuso (ed. Laterza), che, cioè, anche gli oggetti hanno un’anima. Essi «sono la creatività, la fatica e le attenzioni che hanno contribuito a produrli, e poi la cura di cui sono stati circondati durante la loro vita. Il loro riuso è il modo in cui il consorzio sociale, o amicale, o famigliare, raccoglie e valorizza» tutto ciò.
L’economista parla anche di alcuni ostacoli nella promozione di una cultura del riuso: quelli che si frappongono all’intercettazione di quanto viene dismesso; la mancanza di abilità tecniche necessarie per il recupero e la manutenzione degli oggetti vecchi; ostacoli di tipo amministrativo e fiscale. Ma sostiene anche che una civiltà del riuso non è impossibile da realizzare e conviene a chi cede e a chi acquista, fa diminuire la produzione di rifiuti, stimola la condivisione e la socializzazione e aumenta l’occupazione. In effetti, sono 12 mila gli addetti al settore della vendita al dettaglio di oggetti di seconda mano; e, se il settore crescesse, forse pure il Pil ne risentirebbe meno, anche se non aumenterebbero i consumi. Alla lunga, però, consumare meglio avrebbe benefici duraturi anche sul Pil.

                                                                     Aurora Nicosia

martedì 20 novembre 2012

Accerchiati dai detergenti



Igienizzanti aggressivi aumentano allergie e stress. Come spendere meno e guadagnare in salute

C’è il detersivo per i piatti, lo spray per la polvere, il presidio medico chirurgico per i pavimenti, l’anticalcare per le piastrelle e lo sgrassatore per i fornelli, il disincrostante per il bagno e l’igienizzante per il bucato. Senza dimenticare l’antigocce per i vetri, il detergente per il parquet, lo smacchiatore per le camicie e la candeggina per un bianco che più bianco non ce n’è.
Alzi la mano chi non ha, accanto a bacinelle, stracci e spugne, una decina di flaconi con proprietà antisettiche, disinfettanti e antibatteriche. Ebbene, sono tutti (o quasi) tossici e pericolosi. Tempo fa uno spot televisivo mostrava una mamma col figlio minacciati da panciuti e pericolosissimi batteri, pronti a saltare sul bambino per spedirlo a letto con un’infezione quantomeno preoccupante, a meno che la solerte mammina non avesse provveduto a disinfettare la casa, senza fatica e senza risciacquo. Tutto bene. Anzi, no.
Innanzi tutto, i batteri sono un po’ ovunque e non tutti sono pericolosi. Se rendiamo le nostre case asettiche come sale operatorie, rischiamo di incorrere nel superbatterio: quello che avrà resistito a tutti i prodotti chimici, diventando più pericoloso e difficile da debellare. E i nostri bambini, oltre ad ingurgitare sostanze tossiche mentre – gattonando – danno pure una leccatina al pavimento, non si fortificheranno, rischiando di indebolire il loro sistema immunitario.
Vista la crescita esponenziale di allergie, da tempo i pediatri denunciano l’eccessivo utilizzo di prodotti chimici per le pulizie. Intendiamoci bene: la casa va pulita, eccome, anche per evitare le allergie agli acari. Tuttavia non serve l’armamentario chimico a cui non riusciamo a rinunciare.
Partiamo dalle lavatrici: l’uso di detersivi, smacchiatori, igienizzanti e sbiancanti davvero non è necessario. Basta un buon detersivo, meglio se non inquini troppo, e un risciacquo più accurato. I cicli brevi, infatti, non eliminano i residui chimici e allora sì che si rischiano pruriti e dermatiti.
Passando alla lavastoviglie: ma siamo proprio sicuri che il brillantante non ci faccia gustare, insieme ai manicaretti, anche i rimasugli chimici appiccicati a bicchieri, piatti e stoviglie? Mangia oggi, bevi domani, anche quantitativi infinitesimali di detersivo alla lunga possono diventare tossici.
E chi non intendesse rinunciare a disinfettare abiti e pavimenti, prima di versare il detersivo sulla spugna farebbe meglio a riflettere sulle indicazioni riportate sulle etichette: non inalare, non toccare, non ingerire…
Ma allora come avere case pulite, ridurre i rischi di allergie e anche (perché no?) risparmiare? C’è chi propone l’utilizzo, sano ed economico (e particolarmente utile in questi tempi di crisi) di prodotti naturali (ad esempio, l’aceto come smacchiatore e anticalcare; il bicarbonato per tenere pulita la lavatrice, lavare frutta e verdura e far brillare i tappeti) e chi punta su prodotti ecocompatibili e biodegradabili: costano meno e inquinano poco.
L’importante, spiegano anche dall’associazione dei consumatori Altroconsumo, è non dimenticare che il corpo umano è perfettamente in grado di difendersi da solo dai microbi che vivono nell’ambiente. Riducendo l’utilizzo di disinfettanti e antibatterici l’ambiente ci ringrazierà e la salute nostra e dei nostri figli ne trarrà giovamento.

                                                                    Sara Fornaro

lunedì 19 novembre 2012

L'Equobar di Vicenza


Solo prodotti equo e solidali, a chilometro zero e da agricoltura biologica. Ma anche altro

Una grande e semplice idea: un bar, luogo di relazioni, per far conoscere un’economia differente. «Mi trovo a Brasilia ‒ racconta Adriano Sella, fondatore del movimento Gocce di giustizia ‒ ed entro in un Bar Cultura. Al primo piano c’è una libreria, al secondo c’è un bar dove si possono leggere i libri esposti anche senza comprarli».
Tornato in Italia, dopo aver vissuto sulla propria pelle l’ingiustizia degli altri, decide di far lo stesso. Nasce così il primo Equobar d’Italia. Capitale d’elezione è Vicenza. Sono passati più di quattro anni dagli esordi ma le finalità sono le stesse. «L’Equobar ‒ spiega Sella ‒ vende solo prodotti dell’equo solidale, a chilometro zero e di agricoltura biologica. Sono i prodotti di un’economia che chiamiamo di giustizia».
Il caffè, le tisane, i succhi, le bevande, anche una buonissima Cola, sono del circuito equo e solidale. I formaggi, i salumi, i panini, le bruschette sono prodotti locali della filiera etica, sono a chilometro zero, cioè provengono da produttori locali che garantiscono prodotti di qualità pagati ad un prezzo giusto. I prodotti di agricoltura biologica, senza pesticidi, provengono da varie regioni d’Italia. In un bar sono così disegnati tre cerchi concentrici con cibi provenienti da produttori locali, nazionali e mondiali.
Ma il consumare, anche se equo e solidale, non è la cosa più importante. «Non c’è alcuna pressione al consumo ‒ dice Marzia Lovato, presidente della cooperativa AlterAttiva, che gestisce il bar ‒; i clienti possono sfogliare il giornale, giocare a carte, leggere i libri sui nuovi stili di vita sobri per tutto il tempo che vogliono». È un bar non per tesserati, ma aperto a tutti per creare aggregazione. Gruppi di amici, associazioni possono ritrovarsi in una stanza dell’Equobar per le loro riunioni, feste di compleanno, di laurea e per lanciare nuove band musicali. Appositi eventi culturali, presentazioni di libri, conferenze sono utilizzati per diffondere i nuovi stili di vita e conoscere le connesse problematiche sociali, ambientali, ecologiche. Per non dire della settimana del baratto: di libri e di oggetti. Scambi gratuiti, naturalmente. All’Equobar, infatti, vige la legge della gratuità. Una quarantina di volontari di tutte le età su turni di mattina e di pomeriggio garantiscono l’apertura. Non sono dei professionisti, ma lo stanno diventando. Provate il cappuccino e crederete.

giovedì 15 novembre 2012

Ma chi me lo fa fare?


Non c’è da scandalizzarsi se talvolta ci scopriamo a porci la domanda più semplice che ci sia in questi tempi di crisi: ma chi me lo fa fare? Una domanda declinata in diverse forme: ma chi me lo fa fare di pagare tutte le tasse dovute, proprio tutte? di cedere il posto sull’autobus? di non fare copia/incolla per la mia tesina universitaria? di gettare la carta della pizza appena consumata nel cestino e non per terra? di rispettare la fila alla fermata dell’autobus? di andare a votare alle prossime elezioni? di perdere tempo nel fare la raccolta differenziata dell’immondizia? di rispettare il semaforo rosso anche se la circolazione è inesistente? di richiedere lo scontrino fiscale al parrucchiere? di non scaricare l’ultimo film di 007, gratis, da un sito pirata? di non parcheggiare in doppia fila o sulla pista ciclabile, tanto resto solo due minuti? di non far fotocopie in ufficio, anche se mi servono per faccende mie personali? di… di… di…
Ma chi me lo fa fare? La crisi tocca tutti, tranne pochi privilegiati, tutti dobbiamo risparmiare. Aurelio Molè nella rubrica “Vita sobria” e nel libretto Con stile ci suggerisce metodi e trucchi per arrivare a chiudere il mese dignitosamente e lecitamente, addirittura in modo costruttivo per la nostra persona e per la società. Ok, ma alzi la mano chi non ha mai avuto la tentazione di porsi una delle domande che ho appena elencato! Porsi la domanda, tuttavia, non vuol dire cedere alla tentazione. L’importante sta nel rispondersi correttamente. Ciò dipende in primo luogo dalle proprie convinzioni – più sono intime e radicate, più risultano efficaci –, così come dalle leggi e dalle sanzioni che regolano il vivere in società. Il grado di “civiltà” di un popolo può essere misurato anche dalla capacità della gente di rispondere tenendo conto del bene comune (e dei beni comuni).

D’accordo. Ma se nessuno attorno a noi rispetta il bene comune, perché io debbo farlo? «E che sono fesso?», direbbe Totò. Nella convivenza civile la reciprocità è in effetti importante: se vedo che tutti i miei coinquilini fanno la differenziata, anch’io mi sento spinto a farla. Se, al contrario, nessuno la fa, la mia motivazione viene sminuita. I nostri economisti-editorialisti – Bruni, Gui, Pelligra – da tempo nelle loro ricerche hanno approfondito tale tema della reciprocità e della cosiddetta “reciprocità incondizionale”, cioè quella di chi compie un gesto per il bene comune anche se nessun’altro lo fa: continuo cioè a fare la differenziata anche se i coinquilini non la fanno.
Masochismo? No. Identità forte: la mia decisione per il bene comune non ha bisogno della “reciprocità”, mi spinge all’azione positiva anche se sono solo. Ormai coloro che si comportano così vengono chiamati “piccoli eroi”, anche se forse sono solo “onesti”. Sono persone che il più delle volte finiscono con l’essere contagiose: le nostre pagine sono piene di questi esempi. Tuttavia la piena soddisfazione, la “felicità sociale” arriva solo se c’è reciprocità di comportamenti: la piena realizzazione della nostra identità comune avviene solo in questo caso. Forse l’attuale crisi può spingerci a cercare di raggiungere questo obiettivo comune, magari cominciando da soli, da piccoli eroi. E, forse, potremo così uscire dalla crisi (e far anche il nostro interesse personale, alla fine). Altrimenti sprofonderemo in una guerra civile di interessi particolari.
                                                                                            
                                                                                                      Michele Zanzucchi